Con Renata Colorni i discorsi non finiscono mai e non possono finire, tale è la storia da raccontare; tanta è la cultura che viene messa in campo con la rete di amicizie e di relazioni intellettuali. Parlando con lei, si capisce che l'editoria è un turbine che inghiotte idee e conoscenze e sputa libri e umanità; e al contrario: inghiotte libri e umanità, sputando fuori nuove idee e conoscenze. «La vita è strana», dice Renata. Ritrovarsi in pensione, dall'inizio di luglio, a 80 anni è un privilegio e una vertigine, dopo una vita a costruire edifici editoriali. «Pensare di andare dal parrucchiere invece di lavorare mi mette angoscia», dice.
Sposata a vent'anni e madre di due figlie a 22, laureata in Filosofia medievale a 23, docente nelle scuole superiori tra Pavia, Stradella e Voghera, ha cominciato l'attività editoriale da Franco Angeli, ha curato le opere di Freud per la Boringhieri, ha seguito la letteratura germanofona per l'Adelphi, ha tradotto Schnitzler, Dürrenmatt, Thomas Mann, Bernhard, Canetti, dal 1995 ha diretto i Meridiani, la collana di classici Mondadori. Totale: sessant'anni di lavoro. Ora il testimone passa a Luigi Belmonte, direttore Oscar e Classici, e al giovane poeta Marco Corsi, con incarico specifico per i Meridiani. «Con loro ho lavorato magnificamente in questi anni», dice.
«La vita è strana, sono sempre stata divisa tra tante cose: incerta tra fisica e filosofia, ho fatto testa o croce e mi sono iscritta a Filosofia; facevo filosofia medievale e seguivo corsi di filosofia della scienza e con enorme passione le lezioni del critico e filologo Lanfranco Caretti, un uomo pieno di fuoco, incantevole. Davo ripetizioni ai suoi figli, contenta di guadagnare qualcosa, perché i miei genitori non volevano che avessi troppi soldi in tasca, visto che per loro fumavo troppo…».
Dopo l'assassinio, il 30 maggio 1944, del padre Eugenio Colorni, grande filosofo antifascista, rimase la madre Ursula Hirschmann, che si sarebbe sposata con Altiero Spinelli, padre dell'idea d'Europa, divenuto «papà» putativo di Renata. «I miei genitori avevano un'unica grande passione comune: la politica, gli Stati Uniti d'Europa. Mia madre è stata compagna di battaglia di Altiero per tutta la vita, anzi è andata un po' in crisi quando il lavoro di Spinelli è entrato nelle istituzioni in forma più ufficiale».
Che ricordo ha di sua madre?
«Ricordo con ammirazione e tenerezza lo spirito libero. Mi ha insegnato il tedesco, la mia lingua madre, visto che in tedesco parlava anche con mio padre Eugenio. Non le piaceva fare la signora, moglie di… Amava il volontarismo e la battaglia. Io la politica non l'ho mai praticata né studiata, ma l'ho sempre vissuta con passione. Non avrei mai potuto sposare qualcuno che non condividesse i valori etici e civili della mia famiglia, mentre l'ebraismo mi interessava meno, pur essendo ebrea al cento per cento, come diceva mia madre: Renata, ricordati che sei ebrea hundert Prozent…».
Con il lavoro su Freud, è venuta la tentazione di darsi alla psicoanalisi.
«Mia madre ha molto amato il fatto che traducessi dal tedesco, ne era fiera… Dunque, non mi ha aiutato quando ho provato a cambiare. Anche Altiero mi diceva: tu sei matta, hai già un ottimo mestiere…».
Com'è arrivata da Boringhieri?
«Nell'ottobre 1972 ero a Francoforte per la Franco Angeli, dove mi occupavo di collane specialistiche, e Michele Ranchetti, che conoscevo da anni, mi presentò a Paolo Boringhieri, il quale voleva qualcuno che sapesse bene il tedesco. Facemmo una lunga chiacchierata e decisi di trasferirmi a Torino. Ero contenta di andare fuori dall'orbita milanese».
Che tipo era Paolo Boringhieri?
«Un uomo fantastico, timidissimo e originale, posseduto dalle sue passioni. La passione per la psicoanalisi gli ha regalato l'audacia: era un uomo parsimonioso, ma in questa impresa è stato molto prodigo. Cesare Musatti, già molto anziano, era terrorizzato dal non veder finita l'opera e mi faceva fretta: "Su, Renata, la smetta di cincischiare con il suo tedesco, vada avanti, finisca…"».
Sei anni per curare l'opera completa di Freud. Non molto.
«Ero chiamata a fare un lavoro molto rigoroso e coerente, anche dal punto di vista terminologico per l'intera opera. Boringhieri capiva bene quanto fosse importante lo scrupolo e anche per questo ha profuso energie e quattrini in quantità pazzesche».
Ripagati?
«Ripagati, certo, dalle vendite».
A un certo punto, grazie a Renata, in Boringhieri arrivò Gian Arturo Ferrari, compagno di università e futuro boss della Mondadori. E vent'anni dopo sarebbe stato lui ad assumerla alla Mondadori per i Meridiani?
«Franco Tatò, che era l'amministratore delegato, fu incuriosito dal mio curriculum di germanista e volle conoscermi: aveva lavorato molto in Germania e l'idea di avere qualcuno di cultura tedesca gli piaceva molto. Poi a indicarmi la strada fu Gian Arturo».
Che cosa le disse Ferrari?
«Mi chiamò una sera e mi disse: "Renata, fai quello che vuoi, ma devi sgominare la concorrenza". Allora c'erano la Spiga di Garzanti, la Nave Argo dell'Adelphi, la Pléiade Einaudi, i Classici Rizzoli e i Classici Bompiani… Si può dire che ce l'abbiamo fatta, pubblicando fino a 13-14 titoli l'anno».
Una sfida, dopo sedici anni all'Adelphi.
«All'Adelphi non decidevo io che cosa pubblicare, ma per le traduzioni ho avuto piena fiducia da Luciano Foà, mio grande maestro e amico, e da Roberto Calasso, con cui ci conoscevamo da quando eravamo ragazzini a Roma. La letteratura tedesca in quel momento era l'asse portante di Adelphi. Rivedevo le traduzioni altrui e ogni tanto ne facevo di mie. Come avrei potuto fare le pulci agli altri senza aver acquisito un prestigio mio di traduttrice? All'Adelphi ho imparato che per il successo di un libro la traduzione può essere fondamentale».
Alla Mondadori, per diversi anni ha diretto anche l'area della narrativa.
«La narrativa italiana l'ho seguita con Antonio Franchini, è stato un periodo molto interessante. Alessandro Piperno l'abbiamo scoperto noi e quel libro bellissimo di Fosco Maraini, Case, amori, universi, è venuto fuori anche grazie a Franco Marcoaldi che ce l'ha fatto conoscere. Maraini era il più vicino alla mentalità grande e alla visione cosmopolita di Altiero Spinelli. Apparentemente non c'entra niente ma la postura intellettuale del cittadino del mondo era quella. Io sovrintendevo anche alla narrativa straniera, che era diretta da Luigi Sponzilli».
L'avventura ai Meridiani è raccontata in un numero dell'«Almanacco Guanda» curato da Ranieri Polese. Era il 2012 e Renata Colorni scriveva di un cantiere redazionale, in gran parte femminile, «appassionato, puntiglioso e agguerrito». L'anno scorso i Meridiani inventati da Vittorio Sereni hanno compiuto il mezzo secolo, ma con la direzione Colorni il catalogo si è accresciuto dei tre quarti.
«Ero appena arrivata quando la Mondadori organizzò un convegno al Piccolo su Sereni, di cui era appena stato pubblicato un Meridiano a cura di Dante Isella. Tornata a casa, con la testa che mi scoppia, mi dico: è vero che Sereni è stato direttore della Mondadori, lo capisco, ma se si fa Sereni, perché non Caproni, Luzi, Bertolucci… Bisognava fare un salto vero. Allora i poeti del Novecento nei Meridiani erano Montale, Saba, Ungaretti e Quasimodo».
Il primo nome fu Attilio Bertolucci.
«Era il più vecchio. Capii lì l'importanza di lavorare con gli autori ancora in vita. Andai a trovarlo e mi vidi davanti quegli occhi azzurri bellissimi, un uomo d'un fascino pazzesco. Non ho mai conosciuto un nevrotico che abbia fatto della sua nevrosi un centro luminoso di poesia come lui. Incredibile. Conoscendolo, capivi che senza la nevrosi, la paura, il contatto con il terrore non ci sarebbe stata la sua poesia. Aveva un telefonino e mi diceva: "Mi serve quando esce Ninetta per comperare i giornali, sta fuori almeno venti minuti e devo telefonarle due o tre volte". Attilio viveva in simbiosi assoluta con sua moglie, come Luigi Meneghello con Katia. Meneghello, straordinario, ma matto come un cavallo… Parlavi con lui e rispondeva lei».
Come reagì Bertolucci all'idea del Meridiano?
«Mi disse: "La avverto subito che non voglio fare la fine del povero Vittorio, sepolto dalle varianti". Era terrorizzato dalla filologia. Ci regalò un fantastico autocommento de La camera da letto che praticamente dettava a Gabriella Palli Baroni. Sentiva il suo Meridiano come qualcosa da costruire insieme a noi. Quando Fo vinse il Nobel mi telefonò con un filo di voce: "Renata, hai sentito? Ma cosa ha scritto?"».
Con Mario Luzi fu molto diverso?
«Luzi considerava il Meridiano un atto dovuto, qualcosa che gli spettava ab eterno: era gentile e affettuoso, ma come per una pietanza ordinata anni prima».
Gli altri grandi poeti?
«Andrea Zanzotto era molto ansioso, lo ammiravo immensamente e stabilimmo un rapporto di grandissima confidenza, ma non fu facile. Giovanni Giudici era un uomo infelice, non era contento di nessuno ed era insoddisfatto di come veniva vissuta la sua poesia: un uomo pieno di talento ma anche di tormenti, inetto alla felicità».
Giovanni Raboni?
«Grandissima intelligenza e capacità di cogliere l'essenziale, anche in ambito teatrale, andava al cuore profondo delle cose, con un gusto meraviglioso. Il Meridiano Racine nacque grazie a lui, conversando a cena dopo aver visto al Piccolo la Fedra tradotta da lui e interpretata da Mariangela Melato. Era incredibile la sua capacità di far parlare i grandi autori sulla scena».
I poeti nei Meridiani si vendono bene?
«Sono quelli che si vendono meglio, perché spesso per capirli hai bisogno dell'insieme dell'opera, le cronologie, le note. Pensi che di Paul Celan abbiamo fatto dieci edizioni. Più sono difficili e più si vendono, è un paradosso. Per capire Elsa Morante, basta leggere uno dei suoi capolavori, Menzogna e sortilegio o L'isola di Arturo, per un poeta il Meridiano è indispensabile».
Renata mi mostra una cartolina (la colomba della pace di Picasso) firmata da Arbasino, risalente a più di dieci anni fa. Era stato deciso, con Raffaele Manica, di accogliere nei Meridiani la prima edizione di Fratelli d'Italia e dopo aver letto le bozze, Arbasino scrive: «Carissima, un saluto un po' turbato, alla fine del Cap. 1 di "Fr. d'It." Mi va talmente bene che mi domando perché mai l'ho riscritto».
«Questa cartolina dice bene del rapporto tormentato che Alberto aveva con i suoi testi. Un Meridiano Arbasino era imprescindibile per me. Fu lui stesso a parlarne con Calasso per avere il permesso. I Meridiani godono del diritto dell'opera in raccolta, che permette di acquisire autori che la casa editrice non possiede. Ma se gli editori delle opere singole dicono no, diventa difficile. Con Bohumil Hrabal sono stata fortunata perché e/o è stata felicissima che venisse consacrato. Ricordo che anche Ryszard Kapuscinski, magnifico scrittore e giornalista polacco che andai ad incontrare al Premio Napoli, convinse Inge Feltrinelli, che era recalcitrante. Avrei fatto volentieri, tra gli altri, Anna Maria Ortese, Alberto Savinio, Camus, ma non è stato possibile».
Intanto avete fatto due Meridiani di Andrea Camilleri, che non tutti hanno approvato.
«Appartiene alla nostra decisione di aprire la collana ad autori di altro intrattenimento e di genere: abbiamo Meridiani di Chandler, Hammett, per esempio, Chiara, Bevilacqua… Anche la Pléiade, a cui i Meridiani si ispirano, per gli autori francesi ha delle maglie un po' più larghe. E così per Camilleri sono venuti fuori due volumi: storie di Montalbano e romanzi storici e civili, con curatele di alto profilo, firmate da Salvatore Silvano Nigro, Nino Borsellino, Mauro Novelli».
Con Pasolini come andò?
«L'agente Teresa De Simone, donna intelligente e dura, disse che avevano già proposte da Einaudi e Garzanti e che non avrebbe mai dato i diritti a un editore come la Mondadori di Berlusconi. A meno che, aggiunse, non si faccia tutta l'opera. Io prevedevo tre volumi: romanzi, saggi, poesie. Ne parlai con Leonardo Mondadori e con Gian Arturo: tutto o niente, dieci volumi… Si decise per il tutto, reso possibile dall'immenso lavoro di Walter Siti, e fu quello il primo segnale della volontà di leadership nell'editoria dei classici».
Quali sono le qualità per dirigere i Meridiani?
«Bisogna avere anche un po' di senso del rischio: penso al Meridiano dedicato a Keynes e a tanti Meridiani di saggistica: Macchia, Bobbio, Cecchi, Debenedetti, Segre… E adesso viene Chiaromonte, per chiudere il triangolo con Silone e Herling. Tra le qualità indispensabili c'è anche l'aspetto di capo del personale, il saper affidare le cose giuste alle persone giuste».
Come si lavorava con Leonardo?
«Aveva il sentimento fortissimo dell'eccellenza e della dignità della casa editrice. Quando in riunione parlai del Meridiano Bertolucci fece partire l'applauso. Con lui le cene per gli autori si concludevano sempre con una torta disegnata come la copertina del libro».
Tra gli ultimi autori contemporanei diventati un Meridiano, anzi due, c'è Antonio Tabucchi.
«Ci tenevo molto, abbiamo fatto un ottimo lavoro anche sulla cronologia con Paolo Mauri e Maria José de Lancastre, donna molto intelligente, acuta, con grande capacità di critica e autocritica: non una di quelle mogli che fanno del marito un santino. L'ho conosciuta grazie a Tullio Pericoli».
Ci sono ancora autori meridianizzabili?
«Sono in lavorazione Asor Rosa, Rodari, Maraini, poi Chiaromonte, Sbarbaro, Jane Austen ritradotta da Susanna Basso, Turgenev tradotto da Nicoletta Marcialis, Octavio Paz curato da Ernesto Franco, Mallarmé curato da Valerio Magrelli, Philip K. Dick a cura di Emanuele Trevi… E poi il progetto a cui tengo di più: l'epistolario di Saba, che è una leggenda della storia letteraria italiana, una vicenda intricata di eredità. Sono felice che si faccia, anche perché mio padre era molto amico di Saba».
E perché non pubblicare le lettere tra Calvino e Elsa De Giorgi? Per Maria Corti è il più bel carteggio d'amore del Novecento.
«Mi piacerebbe molto leggerlo e sarei felice che la figlia Giovanna ne concedesse la pubblicazione». La cosa di cui va più fiera? «Le edizioni dei tedeschi curate da Luigi Reitani e Luca Crescenzi: Hölderlin, Thomas Mann, il Fontane di Baioni… E poi le cronologie. Avrei una trentina di biografie che sono gioielli narrativi da pubblicare a sé: quella di Ottiero Ottieri fatta dalla figlia Maria Pace, Cesare Garboli su Pascoli, Antonio Franchini su Camilleri, Nadia Fusini su Virginia Woolf…».
Amici?
«Il più vicino è stato Peppo Pontiggia, consigliere, confidente, maestro generoso, ironico, aperto. Un grande amico, con sua moglie Lucia mi è stato vicinissimo in momenti per me molto difficili sul piano privato. Amava talmente i libri che spesso ne teneva due copie: una da leggere e l'altra da conservare intonsa sullo scaffale. Quando sono entrata in Mondadori, è andato da Leonardo per dirgli che avevano preso una ragazza straordinaria. Avevo 55 anni. Dopo la sua morte, abbiamo fatto il Meridiano Pontiggia a tempo di record: in un anno. Per il Pascoli di Garboli sono passati quasi vent'anni».
Cosa farà adesso?
«Non lo so ancora. Per il momento rispondo alle telefonate di lavoro per ricordare che sono in pensione».
Source: Corriere.it
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