«Non sono io: ha vinto Il colibrì». Lo ripete più volte Sandro Veronesi, non solo perché è schivo anche dopo il secondo Premio Strega (qui il racconto della serata), ma perché il libro è il frutto di un percorso consapevole e di uno scrittore che crede in questo romanzo ma anche nel romanzo, la forma letteraria. È tanta la strada fatta per arrivare al Colibrì, e Veronesi inizia a raccontarla a partire dal punto più difficile. «Mi è successo con tutti i miei libri — inizia —, anche con gli altri, ma con questo in particolare: inizio a scrivere e dopo un po' mi dico "non lo finisco"; allora mi impegno, lavoro e alla fine trovo la chiave. In questo caso, invece, si è spalancata una botola. Il colibrì doveva essere il romanzo di una vita. Uno di quelli in cui si va dall'infanzia alla morte del protagonista e che infatti portano il suo nome, Anna Karenina, Martin Eden. Sono romanzi che finiscono con la morte del protagonista, e anche Il colibrì doveva finire con la morte di Marco Carrera, e avevo anche già capito come, di cancro. Però è successo che l'ho avuto io, il cancro». Così ha interrotto il lavoro, spiega: «Ho detto fermi tutti, prima bisogna guarire, poiché mi avevano detto che era possibile. Ho messo da parte il libro, non mi piaceva più quella vicinanza alla mia vita vera, non era di me che volevo scrivere. L'ho lasciato sospeso e avevo addirittura concepito un altro libro, ambientato nella Parigi anni Ottanta (e non è detto che non lo continui). Ma poi sono guarito. Il problema allora è stato ritornare sul romanzo, con l'entusiasmo di rimettersi a scriverlo, ma con la difficoltà di riprenderlo dopo un'esperienza così estrema».
Chissà se si può chiamarla resilienza, come quella del protagonista del libro. Certo è che dallo stop forzato Veronesi sente di avere imparato molto. «Ho capito la natura del materiale dissodato da quella storia: era rimasto nel fondo della coscienza nei precedenti libri, La forza del passato, Caos calmo e Terre rare, e invece questa volta potevo fare una ripulitura totale della soffitta, nel senso di approfondire tutto, di non celare più niente». La forza del passato (2000) è la storia di un giovane uomo che scopre di non essere chi credeva di essere, bensì il figlio di una spia; Caos calmo (2005), che gli valse il primo Premio Strega nel 2006, è la storia di Pietro Paladini, bloccato nel lutto per la morte della moglie; e in Terre rare (2015) lo stesso Paladini torna per affrontare il crollo di tutto il suo mondo. «Evidentemente ora avevo la forza di affrontare cose che in quei tre libri avevo lasciato perdere. E non c'è altro ordine per elencare quei romanzi, non c'è altro modo di arrivare al Colibrì: perché da ogni esperienza è venuta una rivelazione. Fare un percorso è proprio questo: aver capito, dopo, ciò che hai fatto prima. Prima non lo sapevi, ora lo sai, e se lo sai è difficile essere disorientati, è difficile perdersi. E vale per chiunque, non solo per uno scrittore».
Questo vale anche per il suo impegno civile, che lo ha portato tra l'altro a bordo della nave della ong Open Arms e al pamphlet Cani d'estate (La nave di Teseo, 2018), ma in realtà è riemerso dopo una pausa, un'altra interruzione dovuta alle cure familiari e al «lavoro» di padre separato: «Quando ho cresciuto i miei figlioli, ero assorbito dalla sfera privata. Però quel periodo mi ha dato la possibilità di scrivere Caos calmo. Poi i figlioli son cresciuti. Però la base è questa, la discontinuità. Ma la discontinuità, mia dannazione fin da ragazzino, è diventata interessante: è interessante capire quel che succede quando qualcosa sparisce e non lo hai più: un giorno sei campione di tennis e all'improvviso non sai tenere in mano la racchetta. Quando ho capito che la mia discontinuità è la mia sola continuità, ho cominciato a capire dov'ero».
La consapevolezza, il sapere dov'è e da dove viene qualcosa, riguarda anche il romanzo; di cui, dice Veronesi, ha sentito annunciare la morte decine di volte. E riguarda la borghesia, evocata anche durante la serata dello Strega. «Con la borghesia nel Diciannovesimo secolo è arrivata una diversa concezione della cultura, l'alfabetizzazione, la diversa diffusione di cultura e arti. Prima le storie raccontavano solo di nobili. La borghesia è stata questa rivoluzione, di pari passo con la Rivoluzione francese, che nell'Ottocento sfocia nel grande romanzo, borghese: la borghesia conquista un territorio sociale anche per conto delle classi che pure domina». Poi, l'altra rivoluzione del Novecento, continua lo scrittore: «Con la frammentazione definitiva dell'io e la rivoluzione dello spaziotempo di Einstein, la modernità è arrivata addosso alla borghesia, che ne è uscita provata. E poi ha cominciato a produrre anticorpi contro sé stessa e un'intellighenzia, pure borghese, che la metteva in discussione e la combatteva. Questo non significa che il romanzo abbia cambiato padrone».
E qui parlare del romanzo come forma letteraria significa tornare a parlare del Colibrì: «Ora scrivere un romanzo significa tener conto della frammentazione anziché dell'età dell'oro. E chi scrive romanzi, e io scrivo romanzi, ne tiene conto. Credo che questa forma mantenga la sua potenza: i risultati che ha avuto il Colibrì, al di là del Premio Strega, credo siano dovuti al fatto che in quell'opera lì il romanzo è come tornato a vivere, mi sono accorto che ha convinto anche chi, tra i miei amici, alla forza del romanzo non crede».
E conclude: «Avendo dato il massimo sempre, da XY a Terre rare, avendo temuto di non venirne fuori, sono soddisfatto. Io voglio bene a tutti i miei figlioli, ma mi rendo conto che uno va più in là di un altro, anche se non so perché. Quando uscì l'anticipazione del Colibrì su "la Lettura", l'anno scorso, capii che questo libro era un'altra cosa, mi scrivevano, chi voleva leggere il manoscritto, chi parlava dei diritti per il film, poi è diventato miglior libro dell'anno con "la Lettura". Aveva qualcosa di molto compatibile con il suo tempo, un coefficiente di penetrazione diverso. Ma se mi dicono che io ho vinto due premi Strega, questo no, se la mettono così mi vergogno. È lui che ha vinto, non io, ha vinto il Colibrì».
La prima volta dell'editore
La seconda volta di Sandro Veronesi con Il colibrì è la prima della Nave di Teseo, la casa editrice che Elisabetta Sgarbi ha fondato con Umberto Eco, Mario Andreose e vari soci della società civile e culturale (tra cui lo stesso Veronesi) soltanto quattro anni e mezzo fa e che già per diverse volte in questi anni è riuscita a entrare nella cinquina. Vince la Nave. Perde, anche quest'anno, il gruppo Mondadori che pure, sommando i voti dei suoi tre autori — Valeria Parrella (Almarina, Einaudi), Gianrico Carofiglio (La misura del tempo, Einaudi Stile libero) e Daniele Mencarelli (Tutto chiede salvezza, Mondadori) — allo Strega, ricorda Sgarbi, rimane l'avversario da battere. Il distacco con Gianrico Carofiglio, su cui, nelle intenzioni del gruppo, avrebbero dovuto convergere i voti, è apparso evidente fin dal primo spoglio. «È mia abitudine, quando si perde, fare i complimenti a chi ha vinto. Complimenti quindi a Sandro Veronesi e alla Nave di Teseo» ha commentato l'ex magistrato che allo Strega concorreva con il giallo seriale che ha come protagonista l'avvocato Guido Guerrieri. La seconda volta di Veronesi ha soddisfatto anche il comitato direttivo del premio e in particolare il presidente Giovanni Solimine che da tempo sperava nella ricandidatura di un autore che avesse già vinto. Per sottolineare un principio e cioè che «questo è un riconoscimento che va al libro». (r.c.)
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3 luglio 2020 (modifica il 3 luglio 2020 | 22:29)
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Source: Corriere.it
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