воскресенье, 1 марта 2020 г.

Venezia, passeggiare nella città semi-svuotata dall’ansia da coronavirus

Domenica, a Venezia, siamo passati in un battibaleno dalle maschere alle mascherine. Da Arlecchino al reparto malattie infettive, con il Carnevale annullato nel bel mezzo della giornata, quando – forse – sarebbe stato più opportuno farlo il giorno prima. Fin dalla sera di sabato, dal diffondersi delle notizie dei contagi nei dintorni della città e poi nella città storica stessa, era iniziato un fuggi fuggi ordinato ma implacabile. Da quel momento città priva di turisti, prenotazioni annullate, scuole e università chiuse, noi residenti chiusi in casa.

Fra i pochissimi che ci sono in giro non si parla d'altro, e allora ecco i pro quarantena, i contro, e poi – pochi, pochissimi – i fatalisti, a cui credo di appartenere anch'io. Quelli che si attengono a quel detto della mamma: Tanto de calcossa gavemo da morir. E allora si esce, si va, anche se non devo far lezione, gli studenti sono tornati a casa loro, sospesi lauree ed esami, e anche se il lavoro dello scrittore è di per sé una quarantena permanente e dovrei essere abituato a starmene dentro. Tanto, mi ripeto, io sono fatalista. Solo che poi anche il fatalista guarda la tv, legge i giornali, gira sui social e allora in vaporetto cerca di starsene fuori, che le temperature in questi giorni sono quasi primaverili e dentro le cabine il virus di sicuro circola con maggior disinvoltura, credo, e se qualcuno nei paraggi se ne starnutisce o tossisce, mi volto anch'io dall'altra parte, come se quelle particelle si potessero schivare come i paletti di uno slalom.

Ma anche i vaporetti sono mezzi vuoti, i pochi in giro per la città preferiscono andare a piedi: meno contatti, meno rischi. Quando arrivo in Piazza San Marco, poco dopo le quindici, saranno una ventina o poco più, i turisti. Mai vista la Piazza così, nel cuore di una giornata assolata e tiepida. Sullo sfondo, gli obbrobri del carnevale, il palco e i gabbiotti coi colori degli sponsor, mezzi smontati, ma ancora lì dopo tre giorni dall'annullamento della manifestazione da parte della Regione. Occupano almeno un terzo della Piazza e, forse, attenuano il vuoto trasformando il luogo in una sorta di cantiere però griffato, abbellito da ciò che gli sta intorno. Arrivando da Castello, lungo la Riva degli Schiavoni, per la prima volta da decenni non si è costretti a fare gimcane fra le comitive, fra i gruppi che sbarcano dai ferry e dai vaporetti o dai barconi che arrivano dal litorale o dall'isola del Tronchetto. Decine e decine al giorno, senza sosta. Stavolta invece la sosta c'è ed è totale. Non serve nemmeno farsi largo a gomitate quando si raggiunge il Ponte della Paglia, quello che dà sul Ponte dei Sospiri dove c'è sempre un ingorgo, tutti a farsi i selfie là sopra, con il ponte degli innamorati sullo sfondo e che poi era invece quello dei condannati, altro che amore. Quando passo di là, in questo mercoledì delle ceneri, ci sono appena un paio di coppiette, una munita di inutile mascherina, e mi verrebbe voglia di farlo su e giù più volte, quel ponte, in lungo e in largo, ché chissà quando mi ricapita.

Sì, bisogna confessarlo, se si riesce a confinare almeno per un attimo in un angolo della nostra mente il motivo di questa situazione e le sue conseguenze umane ed economiche, Venezia vista e vissuta così è fantastica. Senza le orde di turisti, puoi goderti in pieno la sua bellezza, la sua essenza, capire perché non hai nessuna voglia, alla fine, di andartene da questo posto, nonostante ci stiano provando in tutti modi a portarti all'esasperazione. Ma dura poco. Impossibile astrarsi del tutto. Il virus c'è, è nella mente di tutti noi e allora questo articolo non potrà mai essere un resoconto dal cuore della bellezza, ma soltanto una cronaca dalla città vuota.

29 febbraio 2020 (modifica il 29 febbraio 2020 | 11:31)

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