Concludendo la sua analisi sulla «matematica del contagio», Paolo Giordano citava il libro del saggista scientifico David Quammen, Spillover (il titolo si riferisce ai «salti di specie» degli agenti patogeni dall' animale all'uomo) come degno «di un articolo a sé». In effetti, quel testo può aiutare come pochi altri ad addomesticare il nostro attuale spaesamento, a capire da dove provenga davvero l'ombra che si è allungata nelle nostre giornate, a livello individuale e collettivo.
Esito di sei anni di lavoro accanito, Spillover scorre in superficie come un reportage ipnotico, in cui Quammen ricostruisce origine e andamento di tutte le epidemie-pandemie degli ultimi decenni (dall'Ebola alla SARS) incontrando non solo medici e scienziati, ma anche testimoni e sopravvissuti, delle aree e dei «focolai» volta a volta decisivi, si tratti di foreste congolesi, fattorie australiane o mercati cantonesi di animali selvatici. Ma a un livello sottostante, Quammen ci invita quasi a ogni pagina a considerare il nostro rapporto con gli agenti patogeni in una prospettiva naturalistica (o meglio biologico-evoluzionistica) che può conferirgli un senso più profondo.
Decisiva, al riguardo, è la figura, opportunamente evocata da Quammen, del grande scienziato australiano Frank Macfarlane Burnet (1899-1985). Personalità complessa e irascibile (già a partire da un'infanzia asociale trascorsa a leggere H.G. Wells e a collezionare coleotteri), Burnet diverrà noto soprattutto per le sue scoperte sui meccanismi dell'immunità acquisita (Nobel della Medicina nel'60); ma prima, negli anni Trenta, si fa una certa fama come infettivologo trovando gli agenti patogeni della psittacosi e della «febbre Q» e individuando il fattore di innesco di tutte e due le zoonosi (termine che indica patologie infettive animali trasmissibili all'uomo) nelle cattive condizioni di allevamento, in un caso dei pappagalli, nell'altro di bovini e ovini. Intuizioni confermate dal periodico riaffiorare di quelle (e altre) zoonosi, come nel Brabante olandese del 2007, dove Quammen vede sovraffollamenti di capre in stalle dal pavimento ricoperto da un «polpettone» di «strame, feci e urina», ideale terreno di coltura per i microbi.
Come riflessione sulle sue scoperte, Burnet scrive nel 1940 un libro-spartiacque, Le malattie infettive, in cui — fissata l'importanza delle acquisizioni profilattiche della batteriologia moderna: fognature adeguate, cibo non contaminato, asepsi chirurgica — invita i medici a inquadrare le stesse patologie infettive e le zoonosi come «come un esempio di relazione tra individui di specie diverse, di importanza pari alla predazione, alla competizione e alla decomposizione»; e a vedere, di conseguenza, gli agenti patogeni come «parassiti» o «predatori», «piccole creature che mangiano grandi prede dall'interno».
È una visione del tutto coerente con la sua innovativa descrizione del sistema immunitario, concepito come un sistema in grado di discriminare tra un self (i costituenti molecola propri) e un not-self (quelli «alieni» degli agenti patogeni). Con un'implicazione decisiva. Quel «conflitto» tenderebbe, in un ambiente più o meno costante, a un equilibrio, a trasformare la competizione tra specie in coabitazione (come in effetti avviene in molti casi); se non intervenisse, a vanificarlo — anche se non come fattore esclusivo — l'attività dell'uomo.
Ed è proprio quel conflitto il «timone» del percorso evolutivo che conduce fino alla pandemia di questi mesi. Un percorso che vede sulla scena tre «attori»: oltre agli agenti patogeni (in questo caso i virus) e agli umani, gli «ospiti serbatoio» (in gergo reservoirs) che hanno esercitano lo spillover, magari con l'ulteriore mediazione di qualche «ospite di amplificazione» (animali intermedi). E dal momento che SARS-CoV-2 condivide quasi tutto il genoma sia con il suo predecessore SARS-CoV (l'85%), sia col coronavirus dell'ospite-serbatoio di allora, i chirotteri ovvero i pipistrelli (addirittura il 90%), il terzo attore è più di un semplice indiziato. Provare a seguire quel percorso significa cercare di capire le ragioni non prossime — ma remote ed effettive — dell'epidemia-pandemia in corso. E per farlo, il libro di Quammen è solo uno strumento tra altri.
1. I virus
L'origine dei virus va collocata con ogni probabilità nello scenario della stessa origine della vita, tra i 3.5 e i 3 miliardi di anni fa, quando si sviluppano nicchie ambientali favorevoli allo sviluppo delle prime entità biologiche. Dato che i virus sono «zombie chimici» (piccoli genomi racchiusi in una membrana proteica, che per riprodursi devono entrare nelle cellule e utilizzarne i meccanismi), tutte le teorie sulla loro genesi sono tese a spiegare quei tratti morfologici e biochimici. Nell'ordine, sono stati visti come cellule primitive degenerate (tramutate in parassiti dopo aver perso la capacità di vita autonoma); prodotti di «geni in fuga» cioè di «elementi genetici mobili» come i trasposoni (sequenze di Dna in grado di inserirsi nel genoma di molti organismi); o ancora — secondo la seducente teoria di Wolfram Zilling — organismi in coevoluzione con le stesse cellule, entro un comune «brodo primordiale» in cui acidi nucleici e proteine (isolati da involucri o membrane) sarebbero evoluti da un lato verso la viralità, dall'altro verso la cellularità. Anche se forse l'ipotesi più intrigante è che i virus risalgano a un ancestrale «mondo a Rna» in cui le protocellule non hanno ancora «diviso i compiti» tra Dna (depositario dell'informazione e della replicazione) e Rna (deputato alla trascrizione di quell'informazione e alla sua traduzione in proteine), ma operano con un «Rna tuttofare». E questo a tacere di ipotesi più estreme, come quelle che vedono i virus ancestrali all'origine sia dello stesso Dna che del nucleo cellulare.
Oltre che onninvadenti (un milione di particelle virali in una goccia d'acqua, a fronte di 100.000 batteri) e infinitesimali (dai 20 ai 750 nanometri, in forme spesso bizzarre), i virus sono in ogni caso antichissimi, come dimostra, secondo adagio evoluzionistico («più gli organismi sono antichi, maggiore è la loro diversità») il numero di tipi classificati (5000), con stime realistiche che ipotizzano un numero di almeno 1000 volte superiore.
E in ogni caso, la distinzione perdurante tra virus a Rna e a Dna — traccia di quelle origini arcaiche — è una delle chiavi per decifrarne morfologia e «comportamento», con le virgolette a ricordare che non dobbiamo mai cedere alla tentazione di «umanizzare» dinamiche biologiche senza scopo e senz'altro senso se non quello della riproduzione-sopravvivenza.
I virus a Dna (con doppio filamento, la famosa elica) hanno genomi più estesi, minor numero di mutazioni e riescono a «correggere le bozze» (gli errori di replicazione) grazie alla Dna polimerasi, risultando quindi più «stabili». Mostrano «perseveranza, invisibilità, dissimulazione», tendendo a nascondersi al sistema immunitario in una sorta di letargo o stand-by prolungato, per poi riaffiorare in forme più acute: un caso tipico è il varicella-zoster, che può scatenare un «fuoco di Sant'Antonio» anche a dieci o più anni dalla malattia esantematica.
I virus a Rna (con un solo filamento, anche se non mancano eccezioni a doppio filamento, così come- a rovescio- virus a DNA monofilamento) hanno invece genomi ristretti, perché con una «polimerasi da due soldi» che non «corregge le bozze» un genoma troppo esteso produrrebbe un numero di errori insostenibile; in compenso, hanno una frequenza di mutazioni molto più elevata dei virus a Dna (fino a 1000 volte) e popolazioni più numerose. La loro «strategia» è di «esplodere» per «bruciare sul tempo» la risposta immunitaria dell'ospite, inducendo infezioni acute in uno schema on/off (la morte o la guarigione dell'ospite stesso, senza la possibilità di coabitazioni come nei virus a DNA). Qui, gli esempi più immediati sono la famiglia del morbillo, i retrovirus (HIV-1) e certi coronavirus, tra cui le molte varianti del raffreddore e virus «emergenti» come SARS-CoV, MERS-CoV (l'epidemia nella penisola arabica del 2012) e ora SARS-CoV-2. Il punto-chiave è che i virus a Rna — per le caratteristiche appena descritte — hanno tra le loro opzioni per una sopravvivenza a lungo termine proprio lo spillover, il «salto di specie». Tutto sta a trovare «ospiti serbatoio» (ed eventuali «ospiti di amplificazione») adeguati.
2. I pipistrelli
Per arrivare ai chirotteri (dal greco chéir, mano e pteròn, ala) dobbiamo far scorrere il nastro della vita oltre sequenze decisive — l'esplosione della fauna nel Cambriano o il mondo a colori dopo l'emersione delle angiosperme nel Giurassico-Cretaceo, stessi periodi dei dinosauri — fino alla fine del Paleocene, tra i 65 e i 56 milioni di anni fa. È in quel range temporale che i pipistrelli, probabilmente originari delle attuali aree eurasiatiche, si irraggiano e differenziano prima in Africa e poi negli altri continenti.
La loro utilità per Sapiens è più o meno nota, dalla loro incidenza come insettivori (zanzare in primis, quindi come antidoti alla malaria) a quella di impollinazione di fiori e piante, dalla funzione fertilizzante del loro guano (sedimentato nelle grotte) alla possibile incidenza terapeutica nelle ischemie (secondo uno studio recente) di una proteina contenuta nella saliva di una sottofamiglia di vampiri. Capitolo a sé stante (su cui si tornerà) il loro impiego gastronomico: non solo in Cina, ma in molti Paesi (Seychelles, Indocina, Indonesia, Filippine e varie isole del Pacifico) i pipistrelli (specie i frugifori) costituiscono «carne prelibata».
Eppure — fatta salva l'ammirazione per l'ecolocazione con sonar hi-tech — la loro fama sembra ornai dimensionata solo sulla minacciosità patogena; del resto, anche verso gli stessi microbi abbiamo un atteggiamento univoco, rimuovendo la loro utilità-potenzialità, dai «batteri spugne» che assorbono il mercurio e altri inquinanti alle terapie antitumorali con virus geneticamente modificati.
Dopo di che, colpisce nei chirotteri l'oggettiva familiarità coi virus, riconducibile a molti fattori: la rilevanza demografica e filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti (un milione di individui in un sito); la loro stessa «arcaicità» lungo la storia della vita, che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva («quando una linea evolutiva di chirotteri si divide in due, è probabile che lo stesso facciano i patogeni trasportati»); e il volo, che li porta a diffondere e contrarre virus per continui contatti «tridimensionali» (anche in altezza-profondità) su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, con siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri).
Una zoomata a parte merita il rapporto tra la dimensione popolazionale e la longevità (fino a 20-25 anni). È questo rapporto, infatti, che permette ai virus di persistere, perché — in comunità così grandi — ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l'immunità corrisponde un numero costante di neonati suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione» che consente a un patogeno di diventare da epidemico endemico, come succede al morbillo in comunità di almeno 500.000 abitanti. Anche se questo schema non è esclusivo: quando i patogeni non trovano gruppi così consistenti, sopravvivono contagiando popolazioni relativamente isolate (la cosiddetta metapopolazione), secondo lo schema a «ghirlanda luminosa di Natale», metafora che traduce l'intermittenza del contagio stesso, con la cadenza on/off più lenta se le popolazioni sono più distanziate.
Sono modalità che sollecitano in ogni caso domande sul «mistero immunitario» dei pipistrelli, legato a una permeabilità virale che gli studiosi non riescono a spiegare del tutto, riconducendola al freddo dei siti (con eventuale immunosoppressione), ad anticorpi di durata media inferiore a quella umana, alla loro stessa arcaicità evolutiva (che li ha staccati dall'albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l'efficacia di quello di roditori e primati) e alla «convenienza» della stessa coabitazione endemica.
Fatto sta che proprio l'assetto immunitario li elegge tra i principali «ospiti serbatoio» dei virus: come dimostra anche l'interazione con l'uomo.
3. Gli umani
Staccandosi dalla linea evolutiva del gorilla 8 milioni di anni fa e da quella dello scimpanzè «solo» 5, Homo — il fitto «cespuglio» della nostra discendenza — è molto giovane, nel senso che entra su una scena in cui la competizione-coesistenza tra agenti patogeni procede da miliardi di anni, e tra quelli e le altre specie animali (o meglio i loro sistemi immunitari) da decine di milioni, proprio come nei chirotteri.
A lungo (più o meno fino a tutto il Pleistocene), i nostri antenati preominidi convivono coi microbi e i loro vettori (pulci, vermi, protozoi, salmonella, staffilo e streptococchi) senza troppe conseguenze: anche se lentamente vari fattori (punture di insetti, morsi di animali, consumo di cibo contaminato) portano alle prime zoonosi e ai primi spillover, con contagio di tubercolosi aviaria, leptospirosi, schistosomiasi, tetano e altre patologie. Quella relativa preservazione è dovuta in primis all'assetto socioeconomico, articolato in comunità piccole, isolate e nomadiche (al massimo 150 individui, il famoso «numero di Dunbar» che spiega anche il «limite» delle amicizie su Facebook).
Il break avviene circa 10.000 anni fa, quando in una fase di riscaldamento climatico si ritirano i ghiacciai, si alza il livello del mare e viene stravolto l'ecosistema, con un drastico avvicendamento di fauna: si estinguono i grandi pachidermi della prateria umida e fredda e subentrano cervi, cinghiali e orde di roditori. In quel contesto, l'uomo inizia la famosa «transizione neolitica», in cui l'introduzione dell'agricoltura, la domesticazione animale, le deforestazioni e le comunità urbane via via più popolate sanciscono il passaggio dal nomadismo dei cacciatori-raccoglitori alla stanzialità. Tutti tratti — insieme alle crescenti diseguaglianze sociali — tesi a formare nuove nicchie ecologiche per gli agenti patogeni. Infatti, le zoonosi si moltiplicheranno, con l'uomo che contrae patologie dai cani (scabbia, morbillo, tigna), dai bovini (vaiolo, tubercolosi, tenia), dagli ovini (distoma, febbre maltese, carbonchio), dai maiali (trichinosi), dagli uccelli acquatici (influenza) e dai roditori (peste).
Con l'età arcaica e classica — con gli scambi commerciali e le guerre delle «prime globalizzazioni» — quei tratti si accentuano, portando alle prime vere «paure da contagio»: nell'Atene del 430 a.C, (con le masse stipate all'interno della città per volontà di Pericle nel contesto della «guerra del Peloponneso») esplode la prima epidemia di «peste» (in realtà tifo o febbre tifoide o emorragica): e a Roma basti ricordare l'epidemia descritta da Tacito (65 d.C., 30.000 morti) o la pandemia occidentale del 189, che costa alla «capitale» anche 2000 morti al giorno. Mentre il «lungo periodo» che segue — tra Medioevo e modernità — vede attuarsi una progressiva «unificazione microbica del mondo» per stazioni tragiche, le cui cifre parlano da sole, restituendoci anche la dimensione realistica di quello che stiamo vivendo: la Morte Nera del '300 (peste bubbonica, ancora dibattuto se batterica o virale) produce 25 milioni di morti in cinque anni, e più in generale il decesso «da un terzo alla metà» della popolazione eurasiatica e africana; gli shock immunitari prodotti dagli invasori sui nativi americani (isolati per 15.000 anni) li decimano del 90% in un secolo; e l'età preindustriale e industriale deve affrontare pandemie virali come il vaiolo (50 milioni di morti nell'Europa del '700, 400 nel mondo il secolo successivo) o il morbillo (200 milioni globali negli ultimi 150 anni).
Il «secolo breve» (il '900) si apre a sua volta con la Spagnola (da 25 a 40 milioni di morti dal 1918) e si chiude con l'AIDS (36 milioni dall'81 a oggi), che rivela nell'Hiv il principale tra i virus cosiddetti «emergenti», agenti patogeni nuovi o antichi-antichissimi, in grado di mutare la loro virulenza o contagiosità in nuove nicchie ecologiche, favorite dall'accentuarsi dei tratti moderni (urbanizzazione e rete di commerci-trasporti) ma anche da certe nuove procedure mediche (trasfusioni e trapianti d'organo). Nella fioritura degli «emergenti», i pipistrelli stanno esercitando un ruolo primario.
La convergenza: virus, pipistrelli, umani
Il legame tra arcaicità e novità nei virus emergenti con protagonisti i pipistrelli è ben riassunto nel caso di Hendra (dal nome della località australiana d'esordio), grave sindrome respiratoria (soprattutto equina) che esordisce nel '94. In quel caso, infatti, antichissimo è il virus (che si differenzia in tempi remoti dai cugini morbillovirus per restare poi in latenza) e antichissimi gli insediamenti di chirotteri, attestati ben 55 milioni di anni fa nel Queensland, molto prima delle volpi volanti rosse o «pipistrelli della frutta» (a partire da 20 milioni di anni fa) poi identificate come «ospiti serbatoio». Relativamente recenti (ma pur sempre preistorici) sono invece gli insediamenti umani, con gli antenati aborigeni arrivati «solo» 40.000 anni fa dall'Asia sudorientale viaggiando «di isola in isola» su barchette di legno; e recentissimi (quindi nella fattispecie più esposti sul piano immunitario) sono i cavalli, principali bersagli del virus e «ospiti di amplificazione», introdotti in Australia nel gennaio 1788.
Tra la fine dello scorso millennio e l'inizio del nuovo i chirotteri sono stati individuati come «ospiti serbatoio» in diversi generi di «emergenti»: paramixovirus come Hendra stesso o Nipah, encefalite che esordisce in Malesia nel'98, «ospiti di amplificazione» (contagiati dalle deiezioni dei pipistrelli nelle porcilaie) i maiali, un milione dei quali viene sterminato; filovirus come Ebola (solo ipotizzato) e come Marburg (certo), febbre emorragica che deve il nome alla città tedesca in cui irrompe nel 1967 colpendo gli impiegati di una fabbrica di vaccini, contagiati da scimmie verdi importate dall'Uganda («ospiti intermedi»); e coronavirus capaci di indurre a loro volta gravi sindromi respiratorie come MERS-CoV (che colpisce la penisola arabica nel 2012, «ospiti di amplificazione» i cammelli) e soprattutto SARS-CoV (2002-2004) e SARS CoV-2 (ora).
La ricostruzione dettagliata della progressione del contagio di SARS-CoV e la risalita a gambero al virus e ai suoi «ospiti» («serbatoio» e intermedi) è uno dei vertici drammatici del libro di Quammen: la si leggerebbe «come un thriller», non si venisse sopraffatti a ogni pagina prima dall'angoscia, poi da una pietas dolente, non senza una profonda emozione per come la scienza risolve ancora una volta — se non tutti — parecchi enigmi del caso.
La progressione procede per sequenze inesorabili: l'innesco coi contagi in sordina nel Guangdong (capitale Guangzou alias Canton; altra città di riferimento Shenzhen, nuovo polo hi-tech sede anche della Huawei): l'irradiazione, nella stessa area, con un primo superspreader («super-diffusore»), un commerciante di pesce che torna a Canton dalla portuale Zhongshan; il passaggio (durante la terrificante intubazione di quest'ultimo) a tanti medici e paramedici, uno dei quali- un nefrologo — va al matrimonio di un nipote a Hong Kong, risedendo in un Hotel (il Metropole) che diventa un moltiplicatore, esportando il virus da Singapore a Toronto (dove la SARS mieterà 33 vittime); e l'approdo a Pechino, attraverso un altro super-diffusore che arriva a contagiare da solo ben 70 suscettibili. Altrettanto serrate sono le sequenze della risalita retrograda a livello biologico-genetico e epidemiologico: un primo sospetto su un'emergente zoonosi influenzale «del peggior tipo», cioè simile a H5N1 (l'iper-aggressiva «aviaria» del '97,6 decessi su 18 casi); l'individuazione successiva, per esclusione, di un coronavirus (che prende il nome dalla forma tondeggiante con le frange appuntite); quella di un primo, ingannevole «ospite serbatoio» come lo zibetto (civetta delle palme mascherata), che si rivelerà invece tragicamente solo un «ospite intermedio» (tragicamente perché il governo cinese — dopo la recidiva del 2004 — ordinerà la soppressione di 1000 esemplari, che finiranno soffocati, bruciati vivi, folgorati, annegati); la risalita dopo quell'ecatombe (in due studi paralleli, uno a Hong Kong, l'altro a New York) all'effettivo reservoir, il minuscolo «pipistrello ferro di cavallo», bestiola dalla protuberanza nasale bruttina ma efficacissima nell'ecolocazione.
Nell'indagare sul possibile «innesco» dello spillover, Quammen si dilunga in una digressione che diventa fatalmente sequenza centrale: quella in cui perlustra (personalmente e nei racconti di conoscenti) gli allevamenti e i mercati (wet markets) volti a rifornire gli animali selvatici a un'immensa rete di ristoranti (più di 2000 solo a Canton) specializzati nella relativa cucina (yewei). Una cucina, va rimarcato, non certo proletaria, ma destinata a una clientela cool per cui quella fantasmagoria gastronomica estesa a «tutte le creature di terra, di aria o di mare» (non solo pipistrelli e zibetti, ma anche ratti, serpenti, tartarughe, tassi e furetti di ogni specie, e molto altro) rappresenta un'esibizione di lusso e nello stesso tempo l'adesione a una tradizione «beneagurante», inclusiva di presunti afrodisiaci come il pene di tigre.
I mercati, in particolare (come il Chatou di Canton o il Dongmen di Shentzhen) si presentano come veri «manicomi zoologici», con gli animali selvatici spesso macellati in loco, tenuti a contatto con cani e gatti (pietanze più ordinarie) e stipati in gabbie a rete verticali in cui la deiezione di chi sta sopra finisce su chi sta sotto. Non per niente, tra i «casi indice» (i primi diffusori) della SARS figurano — oltre a cuochi e personale da cucina di Canton — venditori e clienti di quei mercati, dove non è raro imbattersi in partite di pipistrelli infetti e possibili «ospiti intermedi» come gli zibetti.
5. SARS CoV-2 («il Coronavirus») in prospettiva
Lo scenario di SARS-CoV si è ripresentato ora con SARS-CoV-2. La ricostruzione di Quammen mostra infatti come alla similarità genetico-molecolare si associ quella epidemiologica: stessa area di provenienza (la Cina, stavolta centrale, città di Wuhan, provincia dell'Hubei); stessa partenza in sordina, tra esordio subdolo del contagio e cautele sconfinanti in censure (i primi casi forse a ottobre 2019); stessa modalità di innesco, anche se il mercato del pesce di Wuhan — dov'erano esposti animali vivi, tra cui fauna selvatica e pipistrelli — sembra ora un passaggio secondario.
Ci vorrà tempo, ovviamente, per arrivare allo stesso grado di messa a fuoco di SARS-CoV. Non mancano, però, marcate differenze. Caratterizzato da una maggiore contagiosità, il nuovo virus sembrerebbe inferiore per letalità: per SARS CoV era del 9.6% (8098 casi in 29 paesi, con 774 decessi); quello del virus attuale, al momento, del 3,4 (più di 93.000 casi con più di 3200 decessi: i dati sono aggiornati a mercoledì 4 marzo), anche se va tenuto conto di molte variabili, dai contagi non ancora rilevati ai forti scarti tra Paesi e i relativi assetti socio-sanitari (vedi Iran).
E anche il famigerato R, il «numero di riproduzione» ovvero la capacità di contagio di un individuo — che non dev'essere maggiore (>) ma uguale (=) a 1 per indicare una possibile implosione dell'epidemia — è in assestamento: sembrerebbe, in ogni caso, >2. Qualche dato comparativo: le influenze stagionali hanno in genere un R=2, la Spagnola aveva un R>3, il morbillo un R>7.
I prossimi giorni o meglio settimane faranno chiarezza, specie misurando il tutto — l'efficacia del «contenimento» — secondo pietre angolari epidemiologico-matematiche come il rapporto tra virulenza, tasso di trasmissione e tempo di recupero dei pazienti guariti. Intanto, è possibile trarre qualche orientamento, magari tornando alle riflessioni di Macfarlane Burnet.
In primo luogo, bisogna considerare quanto di deterministico e quanto no ci sia in un'epidemia (il che varrebbe, per inciso, per molte altre questioni, a partire dal global warming). La sintesi sta proprio nel caso dei pipistrelli come reservoirs di tante potenziali zoonosi: è vero che in certi casi l'innesco è imprevedibile (vedi quello delle deiezioni sulle porcilaie nel Nipah); ma in molti altri tutto dipende da noi, a partire da quelle alterazioni ecologiche (urbanizzazioni, deforestazioni, e così via) che sottraggono ai chirotteri i loro nutrimenti abituali (zecche e zanzare), attirandoli verso le metropoli e facendo spostare i loro siti iperaffollati (tipo le grotte messicane di Carlsbad, dove stanno stipati in 3000 per metro quadro e dove «persino la rabbia si diffonde per via aerea») in scantinati urbani e fabbriche dismesse. Come riassume efficacemente Jon Epstein, ecologo dei patogeni animali, «non sono loro a cercarci, semmai siamo noi a cercare loro», dove «loro» si può riferire ai patogeni come agli ospiti («serbatoio» e intermedi). Il che vale, nello specifico, soprattutto per la Cina, i cui ormai numerosi precedenti nell'«esportazione» epidemica (prima delle due SARS, le due influenze hongkonghesi e l'aviaria) poggiano su attenuanti oggettive (demografia, densità urbana, migrazioni massicce interne e globali), ma anche sull'elusione di certi snodi, in primis quello dei wet markets.
Dopo il primepisodio di SARS CoV (2002-03), il governo vietava le vendite di civette delle palme e di 53 altre specie selvatiche; ma pochi mesi dopo, in seguito alle proteste di allevatori e commercianti (e usando come pezza d'appoggio un nuovo studio «in discolpa» delle civette) faceva rientrare tutto, peggiorando poi le cose — alla recidiva successiva — con l'ecatombe già rievocata. Ora sembra muoversi qualcosa (vedi l'intervista al Corriere di Zhou Jinfeng, capo della Ong cinese per la difesa della biodiversità); ma già Burnet (che pure lo invocava) era molto scettico su un effettivo divieto commerciale sui pappagalli australiani, «ospiti» della psittacosi. E poi, come spesso in questi casi, è scacco matto, perché divieti simili rischiano di alimentare la vendita illegale.
In secondo luogo, sempre tornando a Burnet, la prospettiva biologico-evoluzionistica delle «malattie infettive» può essere utile a introdurre una visione meno antropocentrica e più spersonalizzata della questione. Ricordarci come la competizione-coabitazione tra organismi di miliardi o molti o pochi milioni di anni sia costitutiva della materia vivente: se tendiamo a rimuoverlo, è perché le acquisizioni profilattiche e bio-mediche (vaccini in primis) ne hanno attenuato di molto l'impatto rispetto a un passato in cui i nostri avi morivano, oltretutto, riconducendo le epidemie ad agenti metafisici o a piaghe mandate da un demone o da un Dio punitivo.
E ricordaci, quindi, che le perdite e i lutti — anche quando ci riguardano da vicino — non invalidano di un atomo il valore oggettivo di quelle acquisizioni, si tratti solo di una curva statistica che faccia intravedere il ritrarsi di una pandemia; che la speranza resta tale anche quando ci esclude individualmente.
I LIBRI
Oltre al libro di David Quammen, Spillover (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, disponibile anche in edizione economica), per questo articolo sono stati utilizzati:
Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia, Carocci, 2014;
Giovanni Maga, Occhio ai virus e Batteri spazzini e virus che curano, tutti e due da Zanichelli, 2012 e 2016;
Giovanni Rezza, Epidemie, Carocci, nuova edizione febbraio 2020, con un capitolo specifico su SARS-CoV-2
Leggi articoli in italiano. Corriere.it
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