понедельник, 29 июня 2020 г.

Way to Paris porta in alto l’ippica tricolore: il trionfo di una coppia di «vecchietti»

Vecchio e bacucco, se si paga pegno d'essere ineleganti, in teoria lo si può anche dire a Paolo Ferrario: perché è un signore di 93 anni, e perché in fondo Bacuco è stato il nome del miglior purosangue della sua scuderia Fert, giubba giallo paglierino creata nel 1954 da suo padre (con soci Angelo Tanzi, agente di Borsa negli anni ruggenti delle «grida» in Piazza Affari, e con Giovanni Falck, presidente delle acciaierie di famiglia), e glorificata nel 1970 appunto dal vittorioso duello di Bacuco a San Siro nel «Gran Premio del Jockey Club»contro il derbywinner Ortis.

Ma il meglio doveva ancora venire. Mezzo secolo dopo. Domenica, a 15 km da Parigi. Allorché il vegliardo proprietario ambrosiano, grazie a un altro canuto vecchietto come il suo anziano cavallo grigio di 7 anni Way to Paris, nel «Grand Prix du Saint Cloud» da 240.000 euro sui 2.400 metri ha regalato all'ippica tricolore quella vittoria in un Gran Premio estero di gruppo 1 che a una scuderia italiana mancava da quasi un ventennio: cioè dalla «Singapore Cup» nel 2001 del pupillo Endless Hall dell'avvocato milanese della Fiat durante Tangentopoli, Alberto Moro Visconti, dalle «Yorkshire Oaks» della cavalla Super Tassa per Ettore Landi nello stesso anno, e dalla «Hong Kong Cup» nel 2003 di Falbrav, il campione della scuderia Rencati dell'imprenditore brianzolo delle cerniere per mobili Luciano Salice, noto per dare ai propri cavalli tutti nomi in dialetto milanese.

Poi più nulla, perché i successivi colpi dei cavalli italiani Ramonti ed Electrocutionist nel 2005 e 2007 vestivano già la giubba di proprietari stranieri come lo sceicco del Dubai, Mohammed al Maktoum, e l'ambasciatore americano in Finlandia Earle Mack. Due vecchi, Paolo Ferrario e Way to Paris, accomunati però nell'epopea da un giovane emergente, il 38enne allenatore Andrea Marcialis, la cui traiettoria affonda a sua volta le radici in una storia anch'essa vecchia. E struggente.

A metà degli anni 70 suo padre Antonio era allievo fantino della scuderia di Ferrario quando l'allenatore della Fert era Mario Benetti (nominato Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi) con il figlio Gaetano, e il primo fantino era il grande ma umile Tonino Di Nardo. Appesa la frusta al chiodo, Antonio Marcialis si impegnò a fare l'allenatore a San Siro al pari del fratello (anch'egli ex jockey) Mario, traendo un ventennio di pane duro dalla fatica quotidiana con cavalli mediamente brocchi. Vita che sembrò non avere più senso la sera del 16 luglio 2000: quella in cui suo figlio Andrea, allora 17enne allievo fantino, mentre vinceva una corsa di routine all'ippodromo delle Bettole a Varese, gioì senza potersi accorgere che in pista alle sue spalle il 19enne cugino e pure fantino Mirko (figlio di Mario) stava perdendo la vita in un pauroso incidente di gara, sbalzato dal suo purosangue Sir Robin in un contatto fra tre cavalli in curva. Ma dopo l'annichilimento e lo smarrimento, piano piano l'intera famiglia Marcialis (anche con gli altri giovani Jessica, campionessa mondiale delle amazzoni nel 2013, Elisabetta e Jaures) è ripartita da zero, alba dopo alba, costruendosi una scuderia piccola ma benvoluta a San Siro. Fino alla coraggiosa scelta di Andrea, pure divenuto trainer, di emigrare nel 2016 per sfuggire alla crisi dell'ippica in Italia e ripartire da zero in Francia. Insieme ai 530 chili del coriaceo grigio Way to Paris, nome (ora profetico) scelto alla nascita nel 2013 dall'allevatrice Franca Vittadini, e mantello canuto ereditato dalla mamma Grey Way e dagli avi materni tutti grigi per dieci generazioni sino al leggendario The Tetrarch nel 1911.

In Francia Andrea Marcialis e Way to Paris sono cresciuti anno dopo anno, l'allenatore arrivando sino a 64 centri stagionali con il sesto posto nella classifica dei trainer Oltralpe, e il cavallo (trasferito da Milano in Francia nel 2017) invecchiando sempre più coriaceo e roccioso nella sua scalata ad altissimo livello alla ricerca dell'agognato Gran Premio di gruppo 1: dieci piazzamenti su 20 gare, con tre posti d'onore in corse di gruppo 3, altri tre in gruppo 2, nel 2018 lo sfizio di disputare persino il «Prix de l'Arc de Triomphe» (11esimo ma non lontanissimo a 5 lunghezze dalla fuoriclasse inglese Enable), l'anno scorso il primo centro in gruppo 2 nel «Prix Maurice de Nieuil» a Deauville, quest'anno il bis vittorioso in un gruppo 2 nel «Gran Prix de Chantilly» e poi il rammarico del gruppo 1 sfiorato per un muso nel «Prix Ganay» a Longchamp, perso solo contro Sotsass (nientemeno che il terzo dell'ultimo «Arc de Triomphe»).

Ma domenica l'obiettivo è stato centrato in un furibondo finale a tre (contro il ceco Nagano Gold e il francese Ziyad alfiere della famiglia Wertheimer, quella proprietaria del marchio Chanel) risolto per il più corto dei musi dall'energica spinta a piene braccia di Pierre Charles Boudot, il 27enne jockey francese sulla cresta dell'onda dopo il vittorioso «Prix de l'Arc de Triomphe» 2019 in sella al tedesco Waldgeist. Il prezzo da pagare per il fatto che i pochi cavalli italiani buoni battaglino al più alto livello all'estero è che in Italia le corse nazionali restano sguarnite: domenica ad esempio a San Siro ben tre purosangue tedeschi hanno monopolizzato il «Gran Premio di Milano», declassato da gruppo 1 a gruppo 2 e accorciato dai classici 2400 metri ai due chilometri per 200.000 euro: ma anche qui curiosamente c'è stato un pizzico di Way to Paris perché a vincere con il giovane jockey Lukas Delozier, battendo i connazionali Royal Julius e Quest the Moon, è stata una teutonica mezza sorella del grigio italiano, Durance, come lui figlia dello stallone francese Champ Elysee.

28 giugno 2020 (modifica il 28 giugno 2020 | 20:49)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Source: Corriere.it

Комментариев нет:

Отправить комментарий