четверг, 19 марта 2020 г.

Il rianimatore guarito dal virus: «Ho avuto paura di non rivedere i miei figli»

«Scusi se la chiamo ora, ma ho riposato perché di notte non riesco ancora a dormire. Ho gli incubi del casco. Sto meglio, respiro bene, ma psicologicamente è dura». Angelo Vavassori, 53 anni, è medico in Rianimazione al Papa Giovanni. Si stava prendo cura dei primi casi di coronavirus, quando è stato male lui. La febbre, la crisi respiratoria, il ritorno in ospedale, ma da paziente grave. Ora è a casa, a Treviolo. «Quella domenica, il 1° marzo, avevo il turno dalle 16 alle 24. Pur avendo la febbre, sono rimasto perché credevo fosse stanchezza».

Era l’inizio del tunnel.

«In quel momento c’erano solo i 16 posti della Terapia intensiva, erano occupati 15. Ora è tutto un altro mondo, hanno ricavato posti letto in ogni buco dell’ospedale».

Cosa ha pensato quando è arrivato il primo paziente?

«Ho pensato: adesso inizia e non finirà più, ci sarà una cascata velocissima (leggi gli ultimi dati: l’esercito porta i feretri fuori regione). Il primo paziente è arrivato il 21 febbraio, è poi deceduto. So che la sera del primo marzo stavo curando il figlio, che era nelle stesse condizioni. Da subito ho avuto la percezione che la diffusione fosse rapida».

Si aspettava così tanto?

«Sì, nella mia testa ho pensato subito che dovevamo chiudere tutto, che si doveva fare una zona rossa (leggi lo stop della Regione sull’ospedale da campo e lo scontro con Gori). Quella domenica non vedevo l’ora che il turno finisse, ma c’è un protocollo di svestizione da rispettare e il passaggio delle consegne. Devi farti la doccia prima con il sapone disinfettante e poi con quello normale. Ricordo che sentivo ancora di più la febbre, tremavo sotto la doccia».

Quando ha capito che poteva essere coronavirus?

«Lunedì mi sono svegliato e non avevo la febbre. La sera sono passato da zero a 38.8 in mezzora. La cosa che mi spaventava un po’ era che non mi sentivo spossato. La febbre batterica ti butta a terra, quella virale no».

E ha iniziato a sospettare.

«Non scendeva nemmeno con il paracetamolo. Sono arrivato a picchi di 39 e la sopportavo bene. Allora ho chiamato il medico del lavoro e mi hanno fatto il tampone: era positivo».

«Mi sono isolato nella stanza degli ospiti, ma il venerdì ho iniziato a non respirare bene e quando la dispnea è diventata importante mi sono fatto portare da mia moglie in ospedale. Per fortuna, si era liberato un posto in semi intensiva».

Ha avuto paura?

«Sì, non mi vergogno a dirlo. Quando sono uscito di casa, ho salutato i miei 4 figli e ho pensato che non li avrei più rivisti. Il maggiore si è accorto di quel saluto speciale».

Come ha vissuto in ospedale da paziente?

«Ho riscoperto soprattutto gli infermieri, gente che conosco benissimo, di cui però, nel quotidiano, mi era sfuggita l’umanità. Da medico ti concentri sul paziente, sulla parte professionale, e perdi quel lato, che invece conta. L’infermiera che entra col sorriso ti cambia la vita, come se fossi in un mare agitato e la tempesta si placasse».

Perché ha gli incubi del casco (è l’apparecchio che aiuta i malati a respirare e a fare guarire i polmoni, ndr)?

«Sotto il casco ci sono flussi velocissimi di aria e ossigeno e un rumore continuo. Ti aiuta a respirare, ma ti senti soffocare. Sudi, io toccavo il viso contro il casco per evitare che le gocce mi entrassero negli occhi. Mi dovevo fare sedare».

Questa esperienza le ha cambiato la prospettiva?

Sì, completamente. E ci terrei che passasse un messaggio: l’unico modo per fermare l’escalation è stare in casa. Dobbiamo farlo, se vogliamo che le cose tornino a funzionare negli ospedali. Mia zia è stata ricoverata in questi giorni ed è rimasta un giorno e mezzo al Pronto soccorso con davanti altre 88 persone».

Com’è stato il ritorno dalla sua famiglia?

«Ho pianto lacrime per 10 minuti e mi sono liberato di tutto (si commuove, ndr). Ora vorrei tornare a dare una mano, ma fatico ancora a stare sulle gambe. Ho perso 6 chili di massa muscolare, non riuscivo a mangiare per gli anti virali. Ieri ho finito la cura e per la prima volta ho pranzato senza avere la nausea».

Che consiglio si sente di dare a chi è malato?

«Il covid ti distrugge soprattutto sul piano psicologico. Bisogna cercare di restare calmi, svuotare la testa dai pensieri e concentrarsi su un obiettivo: tornare a casa. Altrimenti la paura si porta via una parte della tua vita».

19 marzo 2020 | 07:18

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